Estratto
della tesi “Yoga e cristianesimo: un incontro possibile” di Nadia Berti
Lo
Yogasūtra è il testo di base di riferimento per lo
Yoga Darśana, Patanjali ha quindi avuto il merito
di riunire le varie conoscenze “sparse” riguardanti lo Yoga e organizzarle in
modo strutturato attraverso l’istituzione di 8 mezzi (Aşţānga
Yoga) che danno alla disciplina un corpus e un metodo molto concreto e preciso,
che non lascia spazio a libera interpretazione se si rimane fedeli alla
tradizione, sfatando tra l’altro molti falsi miti e false credenze occidentali
su questa antica disciplina. Inoltre il merito di Patanjali è anche quello di
aver inserito legittimamente il Rāja Yoga all’interno del sistema vedico, sistematizzando il Darśana
e creando un collegamento ufficiale e indissolubile con la tradizione ortodossa
induista e con le conoscenza dei Veda.
Come
anticipato poc’anzi, il metodo di Patanjali prevede la divisione del percorso
spirituale in 8 mezzi, per questo oltre che Rāja Yoga (Yoga Regale), viene anche
chiamato Aşţānga Yoga ( lo Yoga degli 8 mezzi dalla
radice sanscrita Anga: mezzo, membro, elemento costitutivo e Aşţa:
otto).
I
mezzi che permettono l’ unione a cui aspirano lo Yogi e la Yogini, secondo l’Aşţānga
Yoga o Rāja Yoga, sono:
1.
Yama: (i 5 comportamenti da evitare: Non violenza - Ahimsā,
Non appropriazione indebita - Asteya, Non falsità - Satya, Continenza sessuale
- Brahmacarya, Non possessività - Aparigraha);
2.
Niyama: (i 5 comportamenti da adottare: Purezza - Śauca,
Accontentamento - Samtoşa, Aspirazione interiore - Tapas, Studio
e conoscenza delle sacre scritture e quindi del proprio se’ - Svādhyāya,
Abbandono al signore o Abbandono allo Spirito Supremo - Īşvarapraņidhāna);
3. Āsana: Posture fisiche
4. Prāņāyāma: controllo del Prana (esercizi
respiratori per controllare l’energia vitale);
5. Pratyāhāra: raccoglimento (ritiro dei sensi dai
loro rispettivi oggetti esterni);
6. Dhārāņa: concentrazione;
7. Dhyāna: meditazione;
8. Samādhi: stato spirituale, assorbimento,
contatto con l’Atman (di cui ne esistono diversi
livelli).
Secondo
Claudio Lamparelli (autore del testo: “Tecniche della meditazione orientale”) i
primi due Anga (Yama e Niyama) servono soprattutto per sopprimere tutte le
fonti di agitazione mentale e non vanno prese come rigide regole fine a se
stesse, che farebbero assomigliare lo Yoga più ad una religione che ad una
disciplina. E’ corretto sostenere che il praticante debba imparare (grazie ad
un accurato lavoro di introspezione, umiltà e impegno costante) a regolarsi da
sé, a comprendere cosa sia “bene” e cosa sia “male” per lui e per la
circostanza specifica. Indubbiamente una predisposizione psichica aiuterà anche
il corpo durante la pratica e la mente nel momento che verrà dedicato alla
meditazione. Nonostante ciò, essendo lo yoga una disciplina teista e nata
comunque nella culla dell’ induismo, anche se non va confusa con la religione
stessa, Yama e Niyama sono precetti morali ed etici che indicano anche un
giusto modo di comportarsi, una giusta attitudine che dovrebbe essere comune a
tutti gli Yogi e a tutte le Yogini. Infatti non sarebbe sufficiente un’ottima
preparazione fisica e una perfetta esecuzione di tutte le Asana, se poi il
praticante, nella vita di tutti i giorni, fosse una persona egoista, altamente
individualista, falsa o disonesta o poco altruista, e così via. Vi sono
indubbiamente precetti come Bramacharya (la continenza sessuale), che hanno
spiegazioni legate anche ad aspetti medici e salutistici (ricordiamo che lo
yoga è strettamente legato all’Ayurveda), e altri precetti che ricordano le più
generiche e diffuse pratiche rituali legate al momento della preghiera, come ad
esempio l’abluzione, collegabile al concetto di Śauca (la purezza, intesa come pulizia e
cura del corpo e della casa), ma non sono privi anche di motivazioni etiche
paragonabili ai 10 comandamenti della religione cattolica.
Per
quanto riguarda le Asana, lo Yogasūtra non si sofferma a darne una
descrizione dettagliata (vi sono altri testi sacri che ne descrivono i nomi, le
funzionalità, le controindicazioni e la tecnica di
esecuzione, come ad esempio l’Hatha Yoga Pradipika e la Gheranda
Samhita), ma ci avverte solo che le posizioni devono essere “stabili e comode”,
questo perché lo scopo e lo stato da raggiungere, descritto da Patanjali, è
sempre quello meditativo, che non può essere ottenuto con la debita
concentrazione e a lungo tempo se il praticante non ha un grado di padronanza
dell’asana tale da poter rimanere seduto comodamente per lungo tempo, senza
essere distratto da dolori fisici, intorpidimento degli arti, stanchezza e
generale scomodità nella postura.
II,
46 La postura è quella che è stabile e gradevole.
II,
47 Diminuendo la tendenza naturale all’irrequietezza e meditando
sull’illimitato, la postura si fa stabile e gradevole.
Riguardo
il Prānāyāma Patanjali non si sofferma a
descriverne le tipologia o la tecnica di esecuzione, (su questo argomento si
trovano maggiori dettagli in testi come la Gheranda Samhita), anche se fa
intendere che ne esistano vari tipi e che lo scopo delle varie tecniche
adottabili sia l’arresto (o trattenimento) del respiro stesso (kumbhaka). Il
trattenimento deve avvenire in quanto, se è vero che esiste una correlazione
fra il dinamismo dell’energia vitale (il prana) e l’attività mentale, si
intende che di conseguenza la sospensione di quest’ultima verrà favorita dalla
cessazione del respiro, il quale è il veicolo del prana stesso.
II,
49 (Da ciò) consegue il controllo del movimento dell’espirazione e
dell’inspirazione.
II,
50 Le sue modificazioni sono sia esterne che interne, o senza moto, regolate da
luogo, tempo e numero, sia lunghe che brevi.
Il
Pratyāhāra è il raccoglimento, con il quale vengono
ritratti i sensi dagli oggetti esterni, interrompendo i canali di comunicazione
con il mondo. Questi primi 5 Anga introducono (e preparano il praticante) ai
successivi 3 stadi, chiamati anche la “triplice concentrazione”. Infatti gli
ultimi tre momenti sono in realtà fusi in un'unica attività meditativa e
difficilmente scorporabili uno dall’altro, anche se non è detto che il
praticante possa raggiungere lo stadio finale con immediatezza, è anzi molto
probabile che sosti per lungo tempo sul primo dei tre Anga.
I
tre stadi successivi sono Dhāranā, Dhyāna e Samādhi che assieme costituiscono, in una
parola sola il Samyama. Il primo (Dhāranā) è la concentrazione dell’attenzione su una determinata forma(come uno Yantra o
un Mandala, il terzo occhio, ecc) o suono, quando la concentrazione non è più
discontinua e intermittente allora si entra nel settimo Anga (Dhyāna),
qui ogni interferenza, interruzione e distrazione è eliminata, la concentrazione diventa un flusso
continuo e può essere chiamata meditazione.
Successivamente,
quando la coscienza sarà in grado di andare oltre se stessa e divenire
consapevole solo del Pratyaya (il contenuto della coscienza in generale o della mente in particolare; l'insieme delle immagini mentali depositate a livello del citta (inconscio), "seme" di meditazione . dal Glossario Sanscrito, ed. Asram Vidya) potrà
raggiungere l’ultimo Anga, il Samādhi. Il Samādhi
consente dunque una nuova penetrazione del Pratyaya, una più ampia e profonda
conoscenza del reale.
III,
1 Dhāranā è trattenere la mente ferma su qualche
oggetto particolare.
III,
2 Un interrotto flusso di conoscenza su quell’oggetto è Dhyāna.
III,
3 Quando quello, abbandonando tutte le forme riflette solo il significato, ciò
è Samādhi.
Il
fine dello Yoga:
Le
basi filosofiche che Patanjali abbraccia e usa come punto di partenza per la
sua analisi dello yoga fanno capo alla teoria del Sāmkhya.
Ma Patanjali integra il Sāmkhya, non credendo che «la semplice
conoscenza metafisica possa portare alla liberazione dell’uomo, ritenendo che
siano invece necessarie una tecnica di ascesi e una tecnica d meditazione, che
costituiscono appunto l’argomento dei suoi 196 sūtra».
Ma
qual è il fine dello Yoga? Patanjali risponde alla domanda fin dal secondo
versetto del primo capitolo:
“yogaś-citta-vŗitti-nirodhah”
La
cui traduzione è: lo Yoga è la soppressione (nirodhah) delle fluttuazione
mentali (vŗitti). Oppure, secondo la traduzione di
Swāmi Vivekānanda, curata da Dario Chioli: «Lo Yoga è impedire alla sostanza mentale (citta)
di assumere differenti forme (vŗitti)».
In
sintesi, lo Yoga è la capacità di arrestare l’attività disfunzionale della
mente, intesa come una tendenza della mente a funzionare in maniera
incontrollata e irrazionale, sia nel suo aspetto cognitivo che emotivo.
Questa
definizione, come sostiene anche Lamparelli, rappresenta il fondamento della
meditazione.
Sempre
in Lamparelli troviamo una sintetica spiegazione sul fine di questa disciplina:
«(…)
è necessaria una tecnica psico-fisiologica che sia capace di sostituire al
normale stato di coscienza uno stato di comprensione e di identificazione della
realtà metafisica, cioè del Sé. In altri termini, le modificazione mentali
corrispondono allo stato di non-sé, e questo a sua volta dipende dalla
condizione di ignoranza (avidyā) che caratterizza la normale conoscenza
umana e ci fa scambiare per reale quello che è invece una costruzione della
mente».
In
testi sacri all’induismo, come ad esempio la Bhagavad Gita, troviamo molti
versi riguardanti lo Yoga e il suo legame con il Sāmhkya,
e vi sono versetti che ci aiutano anche a comprendere il fine ultimo dello yoga
e soprattutto del suo praticante.
Ad
esempio, nel secondo capitolo “Teoria Sāmkhya e pratica Yoga” leggiamo:
(48)
Ben saldo nello Yoga, compi le opere tue, o possessore della ricchezza (spirituale
n.d.r.), dopo aver messo da parte
l’attaccamento, con la stessa disposizione d’animo rimanendo nel successo e
nella sconfitta: la mente in equilibrio continuo di indifferenza ha il nome di
Yoga.
Dobbiamo
operare con una serenità d’animo perfetta, con una perfetta indifferenza per i
risultati ottenuti.
(50)
Colui che ha raggiunto l’equilibrio dell’intelligenza aggiogata elimina anche
in questo mondo tutti e due, il bene e il male. Lotta dunque per realizzare lo
Yoga; lo Yoga è abilità dell’agire.
Nella
traduzione del testo compiuta invece da Padre Bede Griffiths leggiamo:
(48)
Compi la tua azione nella pace dello Yoga e, libero dai desideri egoistici, non
farti scuotere dal successo o dal fallimento. Lo Yoga è uguaglianza di mente,
una pace sempre uguale .
(50)
Con questa sapienza, una persona va al di là di ciò che è fatto bene e ciò che
è fatto male. Cerca, dunque, la sapienza: lo Yoga è la sapienza nell’azione.
L’azione
nello yoga, come spiega nel suo commento anche Bede Griffiths, va svolta senza
ricerca di ricompensa, di onori e di ricchezza, il frutto della nostra azione
va lasciato a Dio.
Se
lasciamo i frutti a Dio, gioiamo del successo e siamo dispiaciuti del
fallimento, ma non ne siamo troppo turbati, questa è l’uguaglianza di mente
(Samatva: la natura o condizione di uguaglianza. Stato di equilibrio. Condizione di stabile equidistanza o equilibrio perfetto nei riguardi del mondo fenomenico che consegue alla realizzazione dell'Unità - dal Glossario Sanscrito, ed. Asram Vidya))
L’autore
ci aiuta anche nella comprensione del versetto 50: «(..) andare al di là del
bene e del male può portare a fraintendimento, perché può essere inteso che
scartiamo sia l’azione positiva che quella negativa, ma invece l’idea
fondamentale è che il bene e il male appartengono alle dualità, e che il bene,
in questo senso, è sempre limitato. Finché cerchiamo il bene limitato e un male
limitato, non raggiungeremo lo scopo; dobbiamo andare al di là di tutti gli
obiettivi limitati, per raggiungere l’Uno che è al di là. In questo senso
andiamo al di là del bene e del male».
Per
comprendere meglio questo passo, e soprattutto per comprendere cosa si intenda
per “bene” e per “male” cito qui un versetto della Katha Upanisad: Yama disse a
Naciketas « Non sempre ciò che è bene è piacevole e non sempre ciò che è
piacevole è bene».
Comprendiamo
quindi come la tecnica che Patanjali ci illustra fin dai primi versetti, non
sia solo legata alla pratica in sé per sé, che questa sia di tipo meditativo o
più fisico, ma che in realtà lo Yoga illustra un vero e proprio stile di vita,
una disciplina che va applicata in tutti i momenti della vita e della giornata
di uno Yogi o aspirante tale. Lo Yoga attraverso quell’ inibizione delle
fluttuazioni mentali di cui ci parla Patanjali, aiuta l’individuo a compiere il
giusto discernimento tra reale e irreale, tra illusione e realtà, mettendo la
persona nella giusta predisposizione psico-fisica per una ricerca introspettiva
e soprattutto per una ricerca di Dio, come in altri termini spiega anche
Shankarācarya nel suo Vivekacudamani.
Il
fine ultimo dello yoga, racchiuso anche nelle parole moksha (liberazione) e
samadhi (autorealizzazione, assorbimento, estasi), è una continua ricerca di
espansione della propria coscienza, per poter annullare quella dualità che
contraddistingue la condizione umana universale, ovvero quella trascuratezza o
dimenticanza dell’identità fondamentale esistente tra spirito e materia e tra
tutti gli esseri umani. Si può così comprendere meglio anche il significato
stesso del termine yoga (dalla radice sanscrita yuj: unione, proprio l’unione
tra spirito e materia).